Pujehun, 1/06/2023
Ciao a tutti, giro delle riflessioni di Gelmino, ho inserito un pò di persone, voi potete tranquillamente far girare questa mail. Ciao Daniela
Lavorare in Africa talvolta mette a dura prova l’obiettività di giudizio. Il confronto tra due mondi, il nostro e il loro, talora si muta in interrogativi ineludibili e spesso è facile passare dal giudizio al pregiudizio. Tuttavia gli episodi quotidiani di miseria umana diventano spesso un pungolo tomentoso. Come non chiedersi, allora, dinnanzi a certe situazioni: che ci faccio io qui? In realtà è una tentazione frequente che anche in altre esperienze africane mi ha toccato.
L’altro ieri, nel primo pomeriggio, mi chiamano al reparto femminile del Main Hospital. È giunta Amie, una bambina di sei anni, è caduta nel fuoco ed è completamente ustionata dall’ombelico in giù e in parte del dorso. È avvolta in sudici stracci che non fanno altro che alimentano un’infezione già in stato avanzato. La febbre è oltre 40°C, la respirazione compromessa, la saturazione dell’ossigeno sotto l’ottanta per cento.
Predispongo il trattamento necessario, anche se le mie speranze di salvarla sono infime. Serve idratazione in vena con potassio, antibiotici in vena e supplemento di ossigeno. Per quest’ultimo serve l’energia elettrica che alimenta una macchina detta appunto concentratore. Ma il generatore è spento e mica posso farlo accendere solo per una macchina. Per fortuna da soli pochi giorni ci hanno installato un piccolo impianto solare nella clinica per malattie croniche che dirigo, e saggiamente, è stata disposta una derivazione per una presa di corrente in reparto, solo una.