una storia apparentemente banale…

Pujehun, 23 settembre 2023

È una storia dai contorni apparentemente banali, una delle tante che potrebbe restringersi nel quotidiano della vita di un ospedale in un angolo remoto della Sierra Leone. Un lieto fine che dovrebbe farti fare i salti di gioia, ma che si incastra come una gemma derelitta nel pallido mosaico della miseria di questi luoghi. Ma vale la pena ogni tanto di affidare alla penna la salvaguardia di una memoria che segna il passo nel trascorrere della mia vita. 

Isata ha sei anni, la porta il papà ieri in ospedale, in coma, con convulsioni, febbre a quarantuno. Non ci sono dubbi è la falce spietata della malaria cerebrale (che con crudele nemesi porta il nome latino di falciparum) così comune nelle paludose propaggini di questa lande. Questa mattina me la ritrovo seduta sul letto, vivace e dimentica della morte che solo ieri l’ha sfiorata. Mi siedo sul suo giaciglio, accanto a lei, le chiedo coma va, mi sorride. Le passo il braccio attorno alle spalle. Dovrei essere al settimo cielo, ma il mio sentimento è affievolito, forse gli anni di consapevolezza in queste terre ha il sopravvento sulle emozioni: qui nulla è mai stabile e acquisito. Certo le nostre cure sono state efficaci e indispensabili con l’assistenza di un po’ di fortuna o della mano dell’invisibile. 

Ho iniziato a preferire il silenzio, non per tacitare le mie emozioni, ma per rispetto di un’umanità che merita più il contegno che l’entusiasmo fugace di una vittoria apparente e quanto mai labile. 

Mi viene in mente l’amico e collega, Silvio Cortinovis, con cui ho lavorato, spalla a spalla per qualche mese in Sud Sudan. Io lo chiamavo silent doctor, mentre altri, per prenderlo in giro, lo appellavano dottor ciarliero: rarissime parole le sue, ma intriso di un’umanità palpabile e concreta, forgiata in decenni di lavoro in Africa. Potevamo rimanere anche più un’ora in sala operatoria senza scambiarci nemmeno un cenno. Solo all’inizio mi diceva con la sua proverbiale umiltà: “fai Tu Gelmino, io non sono un chirurgo.” 

“Nemmeno io, rispondevo.” Ma nel silenzio di quei momenti prosperava una reciproca fiducia e un sentimento di comunione che nessun discorso avrebbe potuto descrivere.

Silvio ha un paio di anni più di me, la prima volta ci siamo incrociati alla fine degli anni ottanta in Tanzania, ma nessuno di noi aveva più memoria di quel fugace incontro. Un’esistenza ci è trascorsa, appesantendo le nostre spalle, cesellando le nostre saggezze, limando le nostre sicurezze. Poi la vita con il suo oscuro piano ci ha fatto rincontrare in Sud Sudan. Non saprei cosa sia accaduto nel frattempo ai nostri sogni: lo sguardo al passato è pregno di contraddizioni, ma sono queste forse che, stendendosi sui nostri corpi non più teneri, hanno conservato giovani le nostre coscienze.

Caro Silvio, non so se avrai occasione di leggere queste mie note, ti saluto comunque e ti abbraccio.

Ciao.

Gelmino Tosi.

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